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SIRIA, LA SITUAZIONE SI DELINEA
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Dire che gli ultimi sviluppi della situazione in Siria abbiano colto tutti di sorpresa è un eufemismo.
Anche noi eravamo certi che l’improvvisa offensiva degli Jahdisti filoturchi da idlib sarebbe stata fermata dalle forze armate siriane che, non dimentichiamolo, pochi anni fa con l’aiuto russo ed iraniano avevano dato loro solenni legnate.
Invece il “regime” ha avuto il suo “ottosettembre”, è crollato come il Regno d’Italia ottantuno anni fa e Bashar Assad ha ora la possibilità di coronare il suo sogno di gioventù: diventare un chirurgo oftalmico.
È noto che stava terminando il dottorato presso il Western Eye Hospital di Londra quando, nel ’94, il suo scapestrato fratello maggiore, erede designato al trono, ha avuto la brillante idea di schiantarsi in auto in perfetto stile Porfirio Rubirosa e la famiglia lo ha richiamato obbligandolo a diventare presidente alla morte del padre.
Ha sempre dato l’impressione di non averne alcuna voglia e di fare tutto solo per senso del dovere: se avesse ceduto, il Califfato avrebbe vinto e la Siria, laica e multiconfessionale, sarebbe diventata una tirannia di integralisti fanatici…
…Ooops!…
…Perché adesso cos’è che sta diventando?
Onore al merito a Bashar, comunque.
I Russi hanno già fatto sapere che gli faranno terminare il dottorato in una loro università (neanche a parlarne di provarci a Londra, non lo farebbero sopravvivere nemmeno il tempo di terminare le pratiche di iscrizione) e che gli metteranno a disposizione una clinica.
Diventerà un bravo medico-chirurgo, potete starne certi.
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Ma ora cerchiamo di vedere quali possono essere le conseguenze nel kiplinghiano “Grande Gioco”.
Innanzi tutto, se prima le difficoltà di rifornimento alla Resistenza venivano attribuite ai Curdi e agli USA che si tenevano ben stretta la fascia nord-sud del deserto iracheno-siriano e non lasciavano passare nessuno, ora questo sbarramento si è ampliato alla intera Siria ed il Libano e la Palestina sono completamente circondati.
Russi e Iraniani sono stati obbligati a levare le tende e la guerra di attrito, in cui si dava per scontato che Israele si sarebbe svenata, è terminata con una incredibile, ma vera, vittoria israeliana.
Non ha senso applicare ad Israele quanto si applica ad ogni altro Stato, quando la sua economia non ce la fa più, condizione reale dell’ultimo anno, vengono effettuate continue trasfusioni da parte del cosiddetto Occidente, le cui elites non possono permettersi di perdere questa testa di ponte.
Il risultato è che la sua forza militare non può venire intaccata in alcun modo ed è sempre pronta ad una mossa imprevedibile ed inaspettata.
In questo caso si è trattato di organizzare, con gli USA e l’amico Erdogan, una improvvisa offensiva contro l’ultimo Stato arabo laico, farlo crollare e non preoccuparsi minimamente dei fanatici tagliagole che ne hanno preso il posto (quelli vanno bene per terrorizzare i civili, ma non hanno alcuna possibilità contro un regno di Prussia).
Israele in questa fase ha vinto e sta occupando, senza colpo ferire, l’intero Golan e sposta le sue truppe a nord del monte Hermon fino a minacciare l’autostrada Damasco-Beirut.
Da lì si può entrare facilmente entro la valle della Bekaa e prendere da tergo quello che fino ad ora era stato l’impenetrabile schieramento di Hezbollah nel sud del Libano.
Vi è quindi da attendersi una “escalation” mai vista del conflitto in Medio Oriente ed una nuova violenta guerra.
Non è pensabile che Israele lasci le cose a mezzo, come invece avevano fatto Russi ed Iraniani pochi anni fa, fidandosi degli accordi e lasciando esistere la roccaforte integralista di Idlib, invece di spazzarla via.
E mal gliene ha incolto.
L’Asse della Resistenza si è preso una bella batosta e ora chi ha potuto si è ritirato a leccarsi le ferite, i nuovi (ed ignoti) comandanti di Hezbollah dovrebbero essere ancora in condizione di resistere almeno per qualche tempo, ma saremo obbligati a vedere gli sviluppi del genocidio a Gaza, perché ora non c’è più nessuno che possa fermare gli integralisti religiosi sionisti, pazzi ed impuniti, dal farlo sul serio.
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Bergamo, 12. XII. 2024
Marco Brusa
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Ed ora un po’ di stampa internazionale.
Tre articoli, il primo di Russia Today è un commento alla nuova situazione che si è venuta a creare.
In esso si ammette che si è trattato di una batosta, anche se si preferisce parlare del solo Iran e non della Russia.
Il secondo è l’opinione della famiglia Erdogan su eventuali accordi tra Curdi ed Israele.
Il terzo ed ultimo è una analisi su quali potranno essere le future intenzioni di Israele.
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Cominciamo con Russia Today
https://www.rt.com/news/608994-damascus-fall-what-next/
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Perché la Siria è caduta così velocemente e cosa succederà dopo?
Gli eventi in corso mostrano la volontà dell’Occidente di utilizzare qualsiasi mezzo per raggiungere i suoi obiettivi strategici e mantenere la supremazia globale.
Una serie di processi profondi spingono costantemente la regione verso grandi trasformazioni. Meccanismi che una volta sembravano nascosti stanno ora diventando più evidenti, rivelando un disegno deliberato per rimodellare quelle nazioni che hanno resistito a lungo all’influenza e all’espansione occidentale.
La mattina dell’8 dicembre, la regione è stata scossa da notizie che, fino a poco tempo fa, sembravano inimmaginabili: Damasco era caduta nelle mani delle forze dell’opposizione e dei gruppi terroristici.
Il governo del partito Ba’ath sotto il presidente Bashar Assad è stato effettivamente distrutto.
La scomparsa di Assad e il silenzio delle fonti ufficiali hanno solo amplificato il senso di un cambiamento irreversibile.
Gli eventi che si stanno svolgendo in Siria sono tutt’altro che casuali, ono il risultato di processi profondi in corso da anni.
Questa tragedia è stata probabilmente predestinata da una confluenza di contraddizioni interne, pressioni esterne e passi falsi storici, che hanno creato collettivamente una tempesta perfetta in grado di rovesciare anche i regimi più radicati.
La crisi siriana, iniziata come una situazione di stallo tra il governo e alcuni gruppi di opposizione, si è evoluta in un conflitto prolungato alimentato da un complesso mosaico di interessi locali, regionali e internazionali.
Anni di guerra implacabile e la riluttanza a cercare il compromesso hanno portato a un peggioramento della disuguaglianza economica, a una fuga di cervelli di lavoratori qualificati, al collasso delle istituzioni e delle infrastrutture statali e alla frammentazione e alla corruzione dell’élite politica.
La società, logorata dalla mancanza di prospettive, si è fratturata profondamente e il crescente malcontento tra la popolazione non ha fatto che accelerare l’indebolimento del governo centrale.
Ma non sono stati solo i fattori interni a determinare questo risultato.
La Siria è diventata un campo di battaglia per le rivalità geopolitiche, in cui le potenze esterne hanno sfruttato la crisi per portare avanti i propri programmi.
Dagli Stati occidentali e arabi che sostengono l’opposizione al coinvolgimento diretto di attori stranieri sul suolo siriano, ogni parte ha perseguito i propri obiettivi, approfondendo ulteriormente il conflitto.
Attori regionali come la Turchia, l’Arabia Saudita e Israele hanno visto l’indebolimento della Siria come un’opportunità per rafforzare la propria influenza.
Eppure, per anni, questi piani non si sono concretizzati a causa del forte sostegno che la Siria ha ricevuto dalla Russia e dall’Iran.
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Chi ne beneficia e cosa succederà?
La caduta di Damasco è un punto di svolta nella politica mediorientale, che segnala non solo il crollo del governo di Assad, ma anche un significativo indebolimento dell’Iran, che aveva trascorso anni a costruire la sua influenza attraverso la sua alleanza con la Siria.
Tehran aveva considerato la Siria come un collegamento vitale nell’Asse della Resistenza, che comprendeva Libano, Yemen e gruppi palestinesi.
La Siria è servita come hub logistico cruciale per armare Hezbollah e fornire sostegno sia politico che economico.
Tuttavia, il crollo della capitale siriana e il caos che ne è seguito hanno distrutto queste catene di approvvigionamento.
Capitalizzando la situazione, Israele ha schierato forze nella zona cuscinetto sulle alture del Golan, espandendo efficacemente il suo territorio occupato.
Questa mossa non solo ha rafforzato la posizione strategica di Israele, ma ha anche privato l’Iran della capacità di contrastare efficacemente le sue azioni nella regione.
Le perdite subite da Hezbollah hanno inferto un altro colpo all’Iran.
L’organizzazione libanese, a lungo considerata uno degli strumenti chiave di Teheran nella sua lotta contro Israele, si trova ora isolata e indebolita.
La perdita delle vie di rifornimento di armi e la distruzione delle sue catene logistiche hanno messo in dubbio la sua prontezza al combattimento.
L’organizzazione è ora costretta a riconsiderare le sue strategie, e la sua capacità di condurre operazioni militari efficaci è stata significativamente ridotta.
Per l’Iran, questo non significa solo una perdita di influenza in Libano, ma anche l’erosione di un pilastro importante della sua più ampia strategia mediorientale.
In questo contesto, Teheran si trova di fronte all’ardua sfida di rivedere la sua politica estera, un compito che sta causando una profonda crisi interna.
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La situazione nella regione è diventata non solo un disastro di politica estera per l’Iran, ma anche una sfida interna, esacerbando ulteriormente le divisioni all’interno della società iraniana.
Le tensioni stanno aumentando tra le forze riformiste che sostengono il dialogo con l’Occidente e i conservatori che insistono sul fatto che mantenere un approccio intransigente è l’unico modo per mantenere l’influenza e il controllo.
Questo divario è ulteriormente intensificato dalla prevista transizione di potere dalla Guida Suprema Ali Khamenei a suo figlio Mojtaba Khamenei, che, secondo molti analisti, potrebbe avvenire già nel 2025.
Questa transizione rischia di innescare una nuova ondata di conflitti politici interni.
Sempre più si teme che la Repubblica islamica possa affrontare fratture interne, che potrebbero degenerare in un conflitto aperto tra varie fazioni politiche ed etniche.
Ai guai dell’Iran si aggiunge l’incombente minaccia di un confronto militare diretto con Israele, che continua a consolidare la sua posizione nella regione.
Approfittando dello stato indebolito dell’Iran e delle vulnerabilità dei suoi alleati, l’esercito israeliano potrebbe cogliere l’opportunità di prendere di mira le infrastrutture rimanenti legate all’Iran, minando ulteriormente la capacità di Teheran di salvaguardare i propri interessi.
Così, la caduta di Damasco non è solo un evento localizzato, ma un simbolo della crisi sistemica dell’Iran, che sta rimodellando l’equilibrio di potere in Medio Oriente e può portare a profondi cambiamenti sia all’interno dell’Iran che in tutta la regione.
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La Turchia, nel frattempo, emerge come un altro potenziale beneficiario, celebrando la caduta di Assad insieme alle forze di opposizione.
Mentre gli obiettivi di Ankara possono attualmente allinearsi con quelli dell’opposizione siriana, è improbabile che questi eventi si siano svolti in diretto coordinamento con la Turchia.
Più plausibilmente, Ankara ha cavalcato gli eventi, cercando di presentarsi come fondamentale al successo dell’opposizione.
Indipendentemente dai dettagli, questo potrebbe portare a un raffreddamento delle relazioni tra Mosca e Ankara, in particolare se si dovesse scoprire che la Turchia ha svolto un ruolo diretto nel coordinamento degli eventi in Siria, violando gli accordi precedenti.
È troppo presto per dichiarare la fine della instabilità in Siria, poiché l’esperienza della Libia illustra vividamente che il cambio di regime raramente porta alla stabilità.
Dopo il rovesciamento di Gheddafi, la Libia non è riuscita a raggiungere la pace, precipitando in un panorama di guerre sanguinose, conflitti tra fazioni e speranze infrante per milioni di persone.
Il paese rimane diviso tra fazioni rivali, ognuna delle quali persegue i propri interessi, lasciando la popolazione impantanata nel caos, nell’insicurezza e nella distruzione delle infrastrutture.
Un destino simile potrebbe attendere la Siria, dove il fragile successo dell’opposizione e dei suoi sostenitori occidentali nasconde l’incombente minaccia di conflitti prolungati che potrebbero ulteriormente frammentare ed esaurire la nazione.
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Un interessante articolo di Daily Sabah, quotidiano turco filogovernativo di proprietà di familiari di Erdogan.
Naturalmente in esso la Turchia viene presentata come la buona sostenitrice della causa palestinese che ricerca l’unità nella regione, mentre i “cattivoni” sono gli altri, in particolare gli odiati PKK/YPG.
Ovviamente non vi è cenno al fatto che il crollo del regime baathista in Siria è stato causato direttamente dalle milizie filoturche armate ed addestrate da Ankara e, soprattutto, all’essere oggi il Libano e la Palestina completamente circondati da forze come minimo “non ostili” ad Israele.
Meglio dare tutta la colpa ai Curdi che, in effetti, hanno sempre impedito la creazione di collegamenti via terra tra l’Iran ed Hezbollah.
Gli spunti che questo articolo propone non sono da ignorare, ma sono da tenere in conto per cercare di avere una buona comprensione dell’insieme degli eventi, senza cadere nella retorica e nel dividere tutto con il coltello tra “buoni” e “cattivi” o nel rifiutarsi di riconoscere che i movimenti di liberazione non sono una qualche “purezza cristallina”, ma apparati che perseguono (o dovrebbero perseguire) gli interessi della popolazione che rappresentano (o che dicono di rappresentare).
In ogni modo l’intero articolo ha una forte componente di “parata del posteriore” nei confronti della recente attività, e vittoria, turca in Siria: è troppo evidente che anche Israele ha vinto, bisogna quindi confondere le acque, cercare di dare tutta la colpa agli “altri”, ai Curdi ad esempio, e negare con forza di avere fatto un grandissimo favore ai sionisti.
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https://www.dailysabah.com/opinion/op-ed/dark-and-dangerous-israel-pkk-relationship-in-the-middle-east
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Relazioni oscure e pericolose tra Israele e PKK in Medio Oriente.
Mentre Israele cerca di frammentare il Medio Oriente, la Turchia promuove l’unità e l’integrazione.
I legami sempre più tangibili tra l’organizzazione terroristica PKK e Israele sono diventati più visibili.
Il viceministro degli Esteri israeliano Tzipi Hotovely, durante una sessione speciale sulla Siria nel parlamento israeliano nel 2019, aveva dichiarato esplicitamente: “Stiamo assistendo i Curdi nelle aree in cui la Turchia sta conducendo operazioni in Siria in vari modi. Israele è in grado di aiutare i Curdi, e sono fiducioso che ne raccoglieremo i frutti in futuro”.
Questa dichiarazione ha rivelato chiaramente il legame di Israele con il PKK e la sua ala siriana YPG.
Inoltre, negli ultimi mesi è stato scoperto che esistono unità ebraiche all’interno del PKK e che valuta israeliana è stata trovata durante le operazioni condotte dall’Organizzazione Nazionale di Intelligence turca (MIT) contro una cellula del PKK.
Tuttavia, queste connessioni non sono limitate ai giorni nostri.
È noto che il rapporto tra i Curdi e Israele ha radici storiche.
Israele, con l’obiettivo di garantire la propria sicurezza e di espandere i propri confini per realizzare la “Grande Israele”, sostiene i gruppi separatisti della regione.
Questa strategia consente a Israele di dividere e di mantenere il controllo sugli equilibri regionali.
I principali sostenitori di questo piano sono, ovviamente, gli Stati Uniti.
L’inclusione di territorio turco all’interno delle aree descritte come “terre promesse” favorisce un clima di diffidenza tra Turchia e Israele, anche se il loro essere alleati occidentali impedisce uno scontro diretto e palese.
La posizione della Turchia sulla questione palestinese aggrava ulteriormente questa diffidenza.
Dopo gli eventi del 7 ottobre, i massacri di Israele in Palestina hanno intensificato l’opposizione globale a Israele a livelli senza precedenti, rendendo il paese ancora più aggressivo.
Questa aggressione si manifesta non solo in interventi diretti, ma anche nel rafforzamento di tutte le strutture separatiste allineate con gli interessi israeliani.
Uno degli strumenti più convenienti per questo è la struttura del PKK in Siria.
Considerando la ferma posizione della Turchia su Gaza e sulla questione palestinese più in generale, il PKK emerge come uno strumento strategico per Israele.
È chiaro, tuttavia, che Israele non è veramente interessato ad aiutare i Curdi, ma è concentrato sulla creazione del “Grande Israele”.
A questo punto, allearsi con il PKK diventa una questione di convenienza, poiché il vero obiettivo del PKK non è quello di difendere gli interessi curdi, ma di facilitare la divisione della Turchia.
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Il PKK come agente statunitense/israeliano
Gli sforzi degli Stati Uniti e di Israele per creare un nuovo ordine in Medio Oriente, in particolare attraverso entità curde nella regione, non sono nuovi.
Un esempio notevole è l’istituzione di una no-fly zone nel nord dell’Iraq nel 1991, creando di fatto una regione per i Curdi iracheni.
Tuttavia, la discordia interna tra i Curdi iracheni e la migrazione dell’organizzazione terroristica marxista-leninista PKK nel nord dell’Iraq dopo il crollo dell’Unione Sovietica, insieme al coinvolgimento della Turchia nella regione, hanno impedito la conclusione di questo progetto.
Più tardi, nel 1998, l’accordo di Adana tra la Turchia e la Siria ha sventato un altro tentativo di utilizzare il PKK per stabilire un punto d’appoggio in Siria.
La cattura del leader del PKK Abdullah Öcalan dopo l’accordo ha segnato l’inizio di un declino per il gruppo.
Tuttavia, l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003 ha permesso al PKK di stabilire un rifugio sicuro nel nord dell’Iraq, operando liberamente all’interno dei confini del governo regionale del Kurdistan.
La limitata influenza della Turchia sulla struttura appena istituita in Iraq ha facilitato ulteriormente la rinascita del PKK, portando ad un aumento degli attacchi contro la Turchia.
Lo scoppio delle rivolte in Siria nel 2011 ha introdotto una nuova fase in Medio Oriente.
Durante questo periodo, il PKK è diventato un attore centrale nella politica degli Stati Uniti in Siria.
Gli Stati Uniti hanno tentato di stabilire una nuova struttura in Siria attraverso ali legate al PKK, che Israele ha sostenuto.
I media israeliani hanno elogiato il ruolo del PKK/YPG nella lotta contro ISIS.
Anche se il sostegno ufficiale di Israele non è mai stato confermato, il coordinamento dei gruppi con gli Stati Uniti e l’Occidente ha servito indirettamente gli interessi israeliani.
Diversi funzionari israeliani hanno rilasciato dichiarazioni a sostegno degli sforzi per l’autonomia curda, anche se non hanno formalmente riconosciuto le affermazioni del PKK/YPG di un’amministrazione autonoma nel nord e nell’est della Siria.
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La Turchia come punto di svolta
Nel 2017, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso sostegno agli sforzi indipendentisti dei Curdi iracheni, una posizione che ha indirettamente incoraggiato le aspirazioni regionali del PKK/YPG.
Tuttavia, le operazioni militari della Turchia nel nord della Siria e il controllo che ha stabilito in queste aree hanno sventato la possibilità della secessione della regione.
Attualmente, la Turchia sembra perseguire una contro-strategia, con iniziative come il Development Road Project che coinvolge il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti (EAU).
Mentre Israele sostiene la frammentazione nella regione, la Turchia promuove la connettività e l’integrazione.
La cooperazione tra i paesi della regione rappresenta una sfida per Israele.
Secondo indiscrezioni, le notizie di colloqui diretti della Turchia con il leader del regime siriano Bashar Assad hanno scontentato gli Stati Uniti e Israele.
Detto questo, dopo l’inizio del secondo mandato di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, Israele potrebbe adottare una posizione ancora più aggressiva e sconsiderata nella regione.
Il primo mandato di Trump è stato segnato da un forte sostegno a Israele e alla sua cooperazione con le strutture legate al PKK in Siria.
Se politiche simili riprenderanno, sarà plausibile un rapporto ancora più stretto tra Israele e la struttura del PKK.
Data la designazione da parte della Turchia di Israele come “stato terrorista” per le sue azioni a Gaza, il sostegno israeliano a gruppi come il PKK potrebbe aumentare.
Le azioni di Israele in Palestina, combinate con le sue operazioni militari, hanno isolato il paese a livello globale, tranne che per il sostegno degli Stati Uniti.
Questo isolamento ha accresciuto l’importanza dei partner locali per Israele, soprattutto perché afferma di combattere su sette fronti.
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Il PKK/YPG ha sempre minato l’autorità centrale del regime di Assad e ha impedito il ristabilimento di uno Stato siriano unificato e sostenuto dall’Iran.
Il controllo del PKK/YPG sul nord della Siria ha sempre interrotto gli sforzi dell’Iran per stabilire un corridoio terrestre che si estenda da Teheran al Mediterraneo.
Dati i tentativi di Israele di contrastare la presenza dell’Iran in Siria, il PKK potrebbe emergere come un alleato naturale per Israele.
È noto che l’intelligence israeliana utilizza strutture affiliate al PKK per monitorare i movimenti dell’Iran e di Hezbollah.
Questa dinamica potrebbe portare a una relazione organica tra Israele e il PKK nel prossimo futuro.
Nel frattempo, la ferma posizione della Turchia contro le azioni di Israele in Palestina e le sue operazioni contro il PKK/YPG limitano strategicamente Israele.
Questa dinamica potrebbe portare la Turchia e Israele a un confronto più diretto nel prossimo futuro.
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