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Bergamo in Comune | Settembre 8, 2024

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DOLLARO, NATO, CINA-RUSSIA, EUROPA ED UCRAINA

DOLLARO, NATO, CINA-RUSSIA, EUROPA ED UCRAINA

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Trentaduesima parte – Banche italiche, petrodollari e petro-yuan

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Mentre i BRICS hanno ufficialmente annunciato che non accetteranno almeno per un anno ulteriori domande di adesione per potere avere il tempo di mettere un po’ di ordine nella valanga, non proprio inaspettata, di richieste finora pervenute, un paio di notizie finanziarie sono state passate presso che sotto silenzio dal MinCulPop mediatico nostrano.

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La prima è di rilevanza non solo italica e riguarda i vari mali di pancia che le banche, ed i pezzi da novanta del capitale in genere, non possono che avere quando arriva un pezzo da novantanove a dire: “dovete fare come voglio io!”.

La nuova minaccia di sanzioni statunitensi più dure questa volta sembra suscitare una qual certa fronda tra le banche europee e di questa se ne fa carico (o gli è stato dato, mai sottovalutare la buona opinione che il mondo ha degli Italiani) un noto istituto nostrano che, con decisione e senza indugi, sta applicando la ben nota pratica italica della procrastinazione, presentando alla Corte di Giustizia della UE un ricorso dai contorni giuridici per nulla normalizzati, uno di quei ricorsi su cui non esiste alcuna giurisprudenza (come d’altronde anche per le sanzioni alla Russia) che fanno discutere giudici ed avvocati per anni, se non per decenni (o secoli, come nel caso di alcune cause italiche riconducibili a re Ferdinando delle Due Sicilie).

Proprio quello che al ricorrente non va bene, ma va benissimo…

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La seconda, invece, è di interesse un bel po’ più globale e riguarda il futuro (ammesso che ce ne sia ancora molto) dei cosiddetti “Petrodollari” e l’affermarsi dei “Petro-Yuan”.

Dal giugno 2024 l’Arabia Saudita ha lasciato che circolasse senza smentire la notizia (ufficiosamente sia chiaro, non ufficialmente: questi Levantini sono peggio degli Italioti) che non rinnoverà lo storico accordo con gli Stati Uniti, firmato nel giugno 1974, per vendere petrolio esclusivamente in dollari USA.

Questo accordo ha assicurato il dominio di US Dollar nel commercio globale di petrolio e di tutto il resto; il suo mancato rinnovo è, solo cronologicamente, l’ultimo evento della recente tendenza verso la de-dollarizzazione.

L’amministrazione Nixon aveva avuto successo nel tentativo di cementare una collaborazione economica con l’Arabia Saudita che è risultata essere centrale per il commercio globale e ha saputo dare a US Dollar una nuova convertibilità, con l’oro nero, ed un nuovo credito che sono risultati essere stabili per quasi mezzo secolo mentre quelli con l’oro vero e proprio erano riusciti ad esistere per meno di trenta anni.

In questo modo, oltre a mantenere stabile la domanda e l’uso di US Dollars, è stata contemporaneamente creata una fonte costante di domanda per i Buoni del Tesoro USA il cui debito pubblico ora si misura in fantastiliardi (trentatremilamiliardi di US Dollars, per la precisione).

Ora gli USA devono competere con una Pechino sempre più assertiva, mentre affrontano spinte centrifughe di alleati come l’Europa e altri che vogliono diventare più autonomi e mentre molti Paesi cercano di sviluppare accordi di pagamento alternativi ad US Dollar, soprattutto per ridurre la loro vulnerabilità al crescente uso di sanzioni economiche e finanziarie da parte di Washington.

La guerra e la conseguente economia di guerra, con tanto di governi collaborazionisti in giro per il mondo (come l’avere nominato alla Unione Europea signore “più realiste del re” provenienti da uno Stato dichiarato “judenfrei” a fine 1941 o il gestore di metà dei paradisi fiscali dell’Occidente alla NATO), in effetti potrebbero essere una “buona” via di uscita per evitare il tracollo monetario…

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In ogni modo ora pubblichiamo la traduzione in italiano di due articoli apparsi su Russia Today (bannata nella UE, sempre in base a giurisprudenza per nulla normalizzata, per non dire oscura o buia).

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Bergamo, 02.VII.2024

Marco Brusa

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UN ISTITUTO DI CREDITO DELLA UNIONE EUROPEA CONTESTA L’ORDINE DI LASCIARE LA RUSSIA

L’italiana UniCredit ha chiesto alla Corte di giustizia della UE di riesaminare le richieste della BCE.

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https://www.rt.com/business/600316-unicredit-ecb-russia-exit/

UniCredit ha presentato ricorso alla Corte Suprema dell’UE per chiarire un’ordinanza emessa dalla Banca Centrale Europea (BCE) affinché l’istituto italiano riduca la propria presenza in Russia.

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L’istituto di credito ha chiesto al Tribunale dell’Unione europea un “chiarimento giuridico definitivo” degli obblighi stabiliti dalla BCE per la liquidazione delle sue attività russe, ha dichiarato UniCredit in una nota di lunedì scorso.

UniCredit ha dichiarato che, pur rispettando la richiesta dell’autorità di regolamentazione di tagliare le sue attività in Russia, è preoccupata “per i termini in cui deve avvenire questa riduzione, come previsto dalla decisione emessa dalla BCE, che va oltre l’attuale quadro giuridico”.

La BCE ha esercitato pressioni sulle banche dell’UE che operano in Russia per accelerare la loro uscita dal Paese a causa della minaccia di sanzioni statunitensi più dure contro Mosca per il conflitto in Ucraina.

A maggio, l’autorità di regolamentazione con sede a Francoforte ha inviato lettere agli istituti di credito con la richiesta di un “piano d’azione” per porre fine alla loro attività in Russia già a giugno.

UniCredit ha attualmente la seconda maggiore esposizione al mercato russo tra le banche con sede nell’UE ed è inclusa nell’elenco dei 13 istituti di credito di rilevanza sistemica stilato dalla banca centrale russa. Anche altre banche dell’UE, tra cui l’austriaca Raiffeisen Bank International (RBI), l’istituto di credito olandese ING, le tedesche Commerzbank e Deutsche Bank, l’ungherese OTP Bank, l’italiana Intesa SanPaolo e la svedese SEB, mantengono una presenza sul mercato russo nonostante le sanzioni occidentali.

Annunciando la sua sfida legale, la banca ha osservato di aver ridotto la sua esposizione transfrontaliera verso la Russia del 91% e la sua esposizione nazionale del 65% da febbraio 2022.

L’istituto di credito italiano ha affermato che la richiesta potrebbe richiedere diversi mesi e ha chiesto una sospensione provvisoria della decisione dell’autorità di regolamentazione.

“Le circostanze senza precedenti, le complessità insite nello scenario geo-politico ed economico e la mancanza di un quadro normativo armonizzato ad esso applicabile e le potenziali conseguenze indesiderate dell’attuazione della decisione che avrebbero un impatto non solo sulle controllate russe” hanno costretto UniCredit a fare chiarezza.

Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha accolto con favore la sfida della banca, affermando che la BCE “deve tenere conto della situazione in cui le aziende italiane operano in Russia, nel rispetto delle sanzioni dell’UE”.

“Decisioni affrettate rischiano solo di danneggiare le imprese italiane e comunitarie”, Reuters ha citato le sue parole.

UniCredit opera in Russia attraverso una società controllata, con circa 3.100 dipendenti e più di 50 filiali.

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LA MORTE DEL PETRODOLLARO: COSA È SUCCESSO DAVVERO TRA USA E ARABIA SAUDITA

Di Henry Johnston, redattore di RT con sede a Mosca che ha lavorato nella finanza per oltre un decennio

https://www.rt.com/business/599637-us-dollar-oil-deal/

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Le notizie sulla scadenza di un accordo tra Washington e Riyadh possono essere una bufala, ma è vero che l’accordo che è stato la chiave del successo di US Dollars si è eroso.

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Si dice che le opere satiriche siano spesso in grado di trasmettere certe verità meglio di un telegiornale.

Questa è forse la luce in cui vedere le notizie che circolano su Internet circa la scadenza di un trattato di cinquanta anni sui “petrodollari” tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita.

Queste bufale sembrano aver avuto origine in India o nel torbido groviglio di siti web rivolti agli investitori in criptovalute.

C’era un accordo ufficiale tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita firmato nel giugno del 1974 e un altro, segreto, raggiunto più tardi nello stesso anno, secondo il quale ai sauditi venivano promessi aiuti militari in cambio del riciclaggio dei proventi del petrolio in titoli del Tesoro degli Stati Uniti.

L’accordo in base al quale Riyadh avrebbe venduto il suo petrolio in US Dollars era informale e senza data di scadenza, mentre invece Il sistema dei petrodollari è cresciuto in modo organico.

Tuttavia, questa bufala indica una verità di fondo: il petrodollaro è entrato in un lungo crepuscolo da cui non ci sarà ritorno.

Nessun altro accordo economico ha fatto di più per garantire la preminenza americana nell’ultimo mezzo secolo ma, citando l’idea originariamente espressa dall’analista finanziario Luke Gromen, sono l’incapacità e la riluttanza dell’America a mantenere questo sostegno che sta gradualmente condannando il sistema.

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ORIGINI DEI PETRODOLLARI

Quando nel 1971 gli Stati Uniti hanno abbandonato la convertibilità in oro di US Dollar, ponendo così fine agli accordi di Bretton Woods, il sistema finanziario internazionale è stato gettato nel caos.

Quello che ne era seguito è stato un periodo turbolento di alta inflazione e di importanti aggiustamenti alla nuova realtà delle valute fluttuanti.

Svincolato anche solo dalla pretesa di una copertura in oro, US Dollar si è svalutato, l’inflazione è dilagata e nell’estate del 1973 aveva perso un quinto del suo valore rispetto alle altre principali valute.

Questo avrebbe dovuto segnare la fine dei due decenni e mezzo di primato di US Dollar dal dopoguerra.

Eppure è accaduto un fenomeno piuttosto singolare: il ruolo di US Dollar come valuta di riserva e strumento primario di commercio si è incrementato.

Il motivo è che gli Americani sono riusciti a indirizzare il commercio del petrolio in US Dollars, a partire dai Sauditi nel 1974 e subito dopo estendendolo a tutta l’OPEC.

Questo ha stabilito di fatto il sostegno delle materie prime a US Dollar e, dal momento che il mercato petrolifero è molto più grande di quello dell’oro, in realtà ha dato ad US Dollar una potenza ancora maggiore.

In cambio dell’accettazione di vendere il proprio petrolio in US Dollars, l’Arabia Saudita è diventata un protettorato dell’esercito statunitense.

Molti hanno visto questo accordo come una sorta di “offerta che non si può rifiutare” per i Sauditi: infatti il Segretario di Stato Henry Kissinger e il Segretario alla Difesa James Schlesinger avevano dichiarato all’inizio del 1975 che non escludevano la possibilità di impadronirsi di giacimenti petroliferi stranieri usando la forza militare in caso di “strangolamento” dell’Occidente da parte dei paesi produttori di petrolio.

Sebbene l’accordo petrolifero tra Stati Uniti e Arabia Saudita sia precedente a queste osservazioni, non è azzardato immaginare che il Regno saudita considerasse l’arrivo sotto la tenda degli Stati Uniti come la mossa più sicura che aspettare per scoprire come sarebbe stata definita la parola “strangolamento”.

Probabilmente è stata un buon azzardo.

Molte cose sono accadute in Arabia Saudita nel mezzo secolo intercorso, ma una cosa che non è assolutamente accaduta è una rivoluzione colorata o un’operazione di cambio di regime da parte degli Stati Uniti.

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IL SOSTEGNO PETROLIFERO “DE FACTO” E L’ECCEZIONE CHE HA CONFERMATO LA REGOLA

US Dollar è così passato dall’essere ancorato all’oro sotto Bretton Woods ad essere ufficiosamente sostenuto dal petrolio e, in effetti, dopo lo shock del 1973-74, il petrolio è stato scambiato in un intervallo notevolmente stabile di circa 15-30 dollari al barile per i successivi 30 anni.

Questa notevole stabilità è alla base del successo dell’accordo sui petrodollari.

C’è stata un’importante eccezione a questa stabilità, ma anche questa ha finito per rafforzare il sistema.

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L’eccezione è lo shock petrolifero del 1978-79, innescato dalla rivoluzione iraniana, quando il petrolio è salito ben al di sopra dell’estremità superiore di questo margine.

Questo ha coinciso (e in parte causato) una profonda crisi di US Dollar e un’inflazione furiosa negli Stati Uniti durante la quale il presidente della Fed Paul Volcker ha intrapreso la sua famosa serie di rialzi aggressivi dei tassi.

La dura medicina di Volcker mirava a spezzare la schiena della peggiore inflazione statunitense della storia, ma non meno importante è stato l’effetto che ha avuto nel rafforzare la credibilità sfilacciata di US Dollar.

Un articolo del New York Times dell’epoca si lamentava che le mosse del presidente della FED “chiariscono che le considerazioni internazionali, e in particolare la difesa di US Dollar, stanno ora influenzando la politica economica americana a un livello senza precedenti nel dopoguerra”.

In altre parole, Volcker è stato accusato di avere dato priorità al funzionamento del sistema di US Dollar rispetto ad ogni altra considerazione di economia interna.

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È importante non impantanarsi troppo nel districare causa ed effetto, o nel cercare nelle azioni di Volcker un esplicito punto di vista del petrodollaro.

Il mercato petrolifero in quegli anni stava rispondendo a una serie di fattori, e non era in alcun modo nel potere della FED gestirlo, Né Volcker stava cercando esplicitamente di farlo.

Ma era ben consapevole del danno che gli alti prezzi del greggio causavano agli importatori di petrolio e della minaccia alla stabilità del sistema che rappresentavano.

L’azione decisiva di Volcker ha ripristinato US Dollar come valuta preferita al mondo, e il biglietto verde più forte ha contribuito a mantenere il petrolio più economico se scambiato nel biglietto verde rispetto ad altre valute.

Ancora più importante, tuttavia, è stata creata la percezione che gli Stati Uniti fossero disposti a sottoporre la propria economia a sofferenze (Volcker ha sottoposto gli Stati Uniti a due recessioni punitive) al fine di preservare il valore di US Dollar per tutti gli attori globali che detengono o effettuano transazioni in esso.

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I prezzi del petrolio sono scesi all’inizio degli anni ’80 e sono rimasti sostanzialmente all’interno dell’intervallo di 15-30 dollari per i successivi vent’anni circa.

Molto di questo è stato in conseguenza delle nuove principali fonti di petrolio che sono entrate in funzione, come il Mare del Nord, l’Alaska e il Messico.

Tuttavia, l’evento principale è che US Dollar ha mantenuto il suo valore rispetto al petrolio.

Non importa quanto questo sia stato un effettivo risultato della politica degli Stati Uniti e quanto sia stato solo una confluenza di circostanze favorevoli; quanto conta è che US Dollar era visto come equivalente al petrolio, e gli anni di Volcker avevano creato l’impressione che gli Stati Uniti lo avrebbero effettivamente difeso in un momento di crisi, lo avrebbero gestito in modo equo e questo ha reso la detenzione di US Dollars (o titoli del Tesoro USA) una proposta ragionevole per tutti.

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UNA FASE DI TRENTA ANNI SI ROMPE E DIVENTA STORIA

Nel 2003 il prezzo del petrolio ha iniziato una lunga e costante ascesa, in gran parte attribuibile all’aumento della domanda cinese e alla realtà geologica che molti dei principali giacimenti storici del mondo stavano raggiungendo il massimo e stavano iniziando a produrre meno, il che significa che il petrolio facile da estrarre stava diventando scarso (è più accurato pensare al picco del petrolio “a buon mercato” piuttosto che al picco geologico effettivo).

US Dollar si è anche sostanzialmente indebolito rispetto alle altre principali valute nel periodo 2003-2008, una circostanza che l’economista Steve Hanke ritiene abbia causato il 50% dell’impennata del prezzo del petrolio durante quel periodo.

È importante sottolineare che quando il petrolio è salito al vertice del suo intervallo di 30 anni, non si è fermato.

Nel corso dei due anni successivi, i prezzi del petrolio sarebbero aumentati costantemente prima di raggiungere il picco di 145 US Dollars al barile nel luglio 2008.

Ancora una volta, un altro modo di pensare a questo è l’ipotizzare un calo del valore di US Dollar rispetto al petrolio: uno sviluppo inquietante per coloro che detengono US Dollars e comprano petrolio.

Questo è stato il momento in cui è apparsa una crepa fatale nelle fondamenta dell’edificio del petrodollaro.

Con il petrolio in rialzo e il dollaro debole, dov’era un nuovo spavaldo Paul Volcker per entrare e inasprire la politica, rafforzare il dollaro a qualsiasi costo e preservare il suo implicito sostegno petrolifero?

La risposta: da nessuna parte ed in realtà, è accaduto esattamente il contrario.

Durante il periodo cruciale in cui il greggio era in aumento nel 2007 e all’inizio del 2008, gli Stati Uniti hanno effettivamente tagliato i tassi di interesse in risposta all’indebolimento dell’economia, esacerbando così il problema.

Luke Gromen vede questo episodio come la causa di un’importante nuovo modo di pensare per molte Nazioni che avevano costituito riserve di valuta estera con la convinzione che US Dollar avrebbe continuato ad essere gestito per essere buono come l’oro per il petrolio, e che gli Stati Uniti non avrebbero perseguito politiche che avrebbero avuto l’effetto di impoverire gli importatori di energia.

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A peggiorare le cose c’è stato il diluvio di salvataggi e di miliardi in essi investiti all’indomani della crisi finanziaria del 2008-09, che ha contribuito alla sensazione che gli Stati Uniti non avrebbero risparmiato alcuno sforzo per stabilizzare il proprio sistema bancario difettoso e…  …al diavolo US Dollar!

Era anche diventato evidente che l’economia statunitense era ormai troppo finanziarizzata e troppo indebitata per sopportare un trattamento simile a quello di Volcker.

Ora va notato che i prezzi del petrolio sono crollati nel 2009 e il dollaro si è (perversamente) rafforzato durante la crisi finanziaria globale, Ma questo è stato dovuto direttamente alla carneficina economica causata dal tracollo stesso e dalla conseguente recessione.

Nessuno ha confuso Ben Bernanke con Paul Volcker.

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Anche i prezzi del petrolio sono crollati nel 2014-2016 a causa del boom dello scisto, che ha reso gli Stati Uniti il produttore di fatto a costi marginali a livello globale.

Si può anche sostenere che per gran parte del decennio 2010-2020, il dollaro è sceso in una nuova (anche se più alta) fascia rispetto al petrolio, ripristinando così un pallido riflesso del precedente legame dollaro-energia, ma il sistema era già malfunzionante a quel punto: Il miracolo dello scisto, di breve durata, ha solo ritardato e nascosto gli eventi in atto.

È importante non cercare in nessuna fluttuazione del dollaro o del greggio un’affermazione o una confutazione dell’idea di un sostegno petrolifero al biglietto verde.

Quello che è fondamentale capire è che a partire dalla metà degli anni 2000, con la corsa al rialzo del petrolio sopra descritta, la promessa implicita del sistema dei petrodollari ha iniziato a traballare e che, da allora, questo fenomeno non si è più fermato.

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LA CINA VUOLE STAMPARE PETRO-YUAN E GLI USA INVOLONTARIAMENTE LA OBBLIGANO

Il Paese che ha preso atto per primo del declino della credibilità di US Dollar è stata la Cina.

Pochi giorni dopo che il presidente della Fed Ben Bernanke aveva annunciato la più grande stampatura di denaro della storia, nel marzo 2009, il capo della Banca Popolare Cinese ha pubblicato un libro bianco dal titolo audace intitolato “Riformare il Sistema Monetario Internazionale”, chiedendo un asset di riserva neutrale per sostituire il sistema basato su US Dollar.

Negli anni successivi, la Cina, il più grande importatore di petrolio al mondo, ha manifestato il suo desiderio di poter acquistare petrolio utilizzando la propria moneta, ha anche ridotto l’acquisto di titoli del Tesoro USA e ha acquistato oro a un ritmo vertiginoso, entrambi chiari voti di sfiducia ad US Dollar.

Molti interpretano queste mosse in termini eccessivamente geopolitici, come il desiderio di Pechino di mostrare i muscoli e minare il mondo unipolare guidato dagli Stati Uniti per il proprio tornaconto.

Tuttavia, è importante capire che per i Cinesi, che non hanno riserve petrolifere e ne hanno fin troppe di titoli “treasury” statunitensi, questa è una questione di sicurezza nazionale: l’affidarsi ad una moneta che viene svalutata giorno dopo giorno e che è supervisionata da un egemone sempre più bellicoso e in declino per l’acquisto della materia prima più critica dell’economia moderna – la cui traiettoria complessiva dei prezzi è verso l’alto – non è una soluzione.

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La Cina ha introdotto contratti petroliferi basati su yuan nel 2018 come parte di uno sforzo per rendere la sua valuta negoziabile a livello globale e, anche se questo inizialmente non ha intaccato molto il dominio di US Dollar sul mercato petrolifero, ha mostrato chiaramente dove Pechino vuole andare a parare.

Quanto ha poi fatto muovere l’ago della bilancia è stato il conflitto in Ucraina o, meglio, la reazione sgangherata di Washington…

E qui arriviamo al punto d’incontro di una tendenza economica profondamente radicata e di un focolaio geopolitico.

Con Mosca limitata dalle sanzioni su dove poter commercializzare il suo petrolio, la Cina ha aumentato significativamente gli acquisti di greggio russo scontato in yuan.

Il leggendario analista Zoltan Pozsar ha definito questo sviluppo “il crepuscolo per il petrodollaro… e l’alba per il Petro-yuan.”

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Tutto questo non riguarda solo la Cina: i BRICS nel loro insieme hanno, come obiettivo dichiarato, l’aumento del commercio in valute locali, un obiettivo che ha acquistato urgenza alla luce dell’uso capriccioso e prepotente delle sanzioni da parte di Washington.

L’India, terzo importatore e consumatore di petrolio al mondo, è diventata il più grande acquirente di greggio russo trasportato via mare dal 2022, pagando il greggio russo in rupie, dirham e yuan e, man mano che il gruppo BRICS si consolida e nuove infrastrutture finanziarie e reti commerciali si uniscono, il commercio di petrolio in valute diverse da US Dollar non potrà che crescere.

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Nel gennaio 2023, l’Arabia Saudita ha persino dichiarato apertamente di essere disposta a vendere petrolio in valute diverse dal dollaro, il primo riconoscimento pubblico di quella che era stata per anni fonte di speculazione, e nel novembre di quell’anno, il Regno ha siglato un accordo di scambio di valuta con la Cina: una chiara indicazione di piani per fare affari futuri in valute locali.

L’accordo del petrodollaro è stato molto buono per i Sauditi e storicamente non hanno mostrato un forte desiderio di rinunciarvi e non c’è dubbio che a questo contribuisca anche una notevole esitazione a rompere con gli Americani: di solito le cose non vanno a finire bene per i governanti dei paesi produttori di petrolio che smettono di eseguire gli ordini degli Stati Uniti.

Eppure i tempi stanno cambiando e Riyadh sembra percepirlo.

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WASHINGTON VUOLE TUTTI I VANTAGGI, MA NESSUNA RESPONSABILITÀ

Ora siamo abituati alla proliferazione di valute non garantite, quindi è difficile apprezzare quanto fosse insolito l’accordo del petrodollaro per un mondo abituato da tempo ad avere a che fare con una qualche forma di convertibilità in oro.

Una cosa è che un governo obblighi ad accettare la propria valuta all’interno dei propri confini, ma il proporre che un altro paese si separi con beni reali – come il petrolio – per del denaro sostenuto da assolutamente nulla sarebbe stato un qualcosa molto difficile da vendere in epoche passate.

Eppure gli Stati Uniti sono riusciti a fare questo e molto altro.

Ma un tale accordo non sarebbe mai stato sostenibile per così tanto tempo – più a lungo di quanto sia durata la Bretton Woods sostenuta dall’oro – se non fosse stato per il potere militare e per altri affari dietro le quinte.

Washington ha sempre agito con un certo senso di impunità, credendo che non ci fosse alcuna alternativa praticabile ad US Dollar, grazie all’età dell’oro del petrodollaro, durata diversi decenni, e c’era almeno una giustificazione economica per questo.

Il petrodollaro ha funzionato abbastanza bene anche per il resto del mondo fino a poco tempo fa, dal momento che non era emerso alcun grande blocco che si opponesse e c’era anche l’ombra lunga di Paul Volcker a dargli credibilità.

Tuttavia, proprio come gli Stati Uniti hanno rinnegato nel 1971 il loro obbligo di convertire i dollari in oro, in seguito hanno rinnegato il loro obbligo implicito di mantenere il valore del dollaro rispetto al petrolio.

Da allora Washington si è liberata di ogni parvenza di restrizione fiscale e di ogni pretesa di gestire il dollaro nel migliore interesse di tutti e, invece, ora brandisce il biglietto verde come un’arma nel disperato tentativo di annullare gli stessi eventi che ha contribuito a mettere in moto non preservando l’integrità della valuta in primo luogo.

Gli Stati Uniti stanno ora lottando per mantenere tutti i benefici di questo sistema che sta andando in frantumi, senza avere alcuna intenzione di assumersi una qualsiasi responsabilità: se il dollaro non è ancorato all’oro e non è nemmeno implicitamente sostenuto dal petrolio, e se Washington non ne preserva l’integrità, allora non è certo all’altezza del compito di facilitare il commercio di risorse critiche.

Un sistema così profondamente radicato come il petrodollaro non scomparirà da un giorno all’altro, ma quando le sue fondamenta economiche saranno erose, potrà essere mantenuto solo per ancora un breve periodo di tempo per mezzo di bufale e di disinformazione.

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https://www.atlanticcouncil.org/blogs/econographics/what-the-end-of-petrodollars-means/

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