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“CANCEL CULTURE” – LA DISTRUZIONE DEL PATRIMONIO STORICO DI GAZA
Pubblichiamo un articolo scritto da una studiosa USAmericana e pubblicato da Al Jazeera relativo agli scopi reali dell’accanimento dell’esercito israeliano contro i principali siti del patrimonio storico-culturale di Gaza che sono stati metodicamente tutti, dicesi tutti, distrutti o gravemente danneggiati (chiese dei Cristiani d’Oriente incluse).
Questo anche se fino al settembre scorso buona parte della stessa stampa israeliana aveva accolto con entusiasmo le notizie di nuovi ritrovamenti archeologici nella Striscia.
https://www.haaretz.com/middle-east-news/palestinians/2023-09-25/ty-article/archaeologists-unearth-rare-lead-sarcophogi-in-gazas-largest-roman-era-cemetery/0000018a-cdd4-da14-a1eb-ddde03d70000
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Da rimarcare anche come sia stata approvata dal parlamento israeliano una nuova legge che potrebbe portare a breve all’interruzione della trasmissione sui territori controllati da Israele delle informazioni “ritenute essere una minaccia per la sicurezza nazionale”, vale a dire al “bannare” i notiziari non graditi al governo e al potere esecutivo in genere.
Al Jazeera è la prima candidata, anche se ovviamente non è la sola, ad essere cancellata dall’etere dell’intera Palestina.
Le motivazioni addotte per questa nuova legge israeliana sono sostanzialmente identiche alla proibizione di trasmettere nel territorio dell’Unione Europea i notiziari russi in lingua inglese.
La sola differenza è che in Israele si “salvano le forme” facendo almeno approvare uno straccio di legge, nell’Unione Europea questo avviene in base ad una semplice decisione arbitraria di un apparato non elettivo quale la Commissione Europea è.
Non siamo più in regime democratico o, perlomeno, non siamo più in una democrazia elettiva come era intesa da coloro che hanno istituito la Repubblica Italiana nel 1946.
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È nostro dovere anche il segnalare come, con almeno due o tre pezzetti della Terza Guerra Mondiale attualmente in corso, non ci si possa comportare come se si fosse ai tempi dell’entrata in vigore del Trattato di Shengen negli anni ’90.
In tempo di guerre [sperando (sob) che restino al plurale e non vengano fuse in una unica] è ovvio che i belligeranti, e gli aspiranti tali, curino il cosiddetto fronte interno e che le provocazioni faziose per impedire la presa di coscienza ed il dissenso si sprechino.
Siamo in un clima politico di “approvazione dei crediti di guerra” per cui invitiamo tutti a tenere alta l’attenzione e ad evitare di cascare nelle provocazioni come dei pollastri (termine voluto).
Queste provocazioni possono essere schematizzate in tre tipologie:
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Provocazione dolosa di chi è a libro paga degli apparati che curano il cosiddetto fronte interno. Facilmente riconoscibile perché è identica alla propaganda di solo una delle parti in guerra (ad es. parla unicamente del 7 ottobre e non dei sei mesi successivi). Quando ci si casca, dopo non ci si salva più dagli psicodrammi mediatici del provocatore che si autodipinge, e dipinge la sua fazione, come un oppresso quando invece è un oppressore.
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Provocazione imbecille. Di solito è estremamente fanatica e serve ad impedire un qualsiasi dibattito con il cercare, ed il trovare, un “nemico” con cui scontrarsi tra i presenti.
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Provocazione dolosa ed imbecille. Un misto delle prime due. È frequente.
Vediamo di non cascarci.
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Torniamo al “Cancel Culture”, componente del genocidio in atto, e lasciamo la parola alla professoressa Hilary Morgan Leathem, ma prima rimarchiamo come abbia ragione da vendere quando scrive che una scienza “usata in modo scorretto, diventa una tecnologia di oppressione, cooptata da regimi di potere che desiderano sfruttare una versione revisionata inventata di sana pianta del passato”.
Al termine di questo articolo pubblichiamo pure una sintesi di un articolo pubblicato sul quotidiano israeliano Haaretz a proposito della intenzione del loro governo di “bannare” Al Jazeera da Israele/Palestina.
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Bergamo, 06.IV.2024
Marco Brusa
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https://www.aljazeera.com/opinions/2024/3/25/why-archaeologists-must-speak-up-for-gaza
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Perché gli archeologi devono parlare a favore di Gaza
L’archeologia è spesso un meccanismo di potere e, proprio per questo, i suoi studiosi hanno l’obbligo di parlare contro l’oppressione.
Hilary Morgan Leathem – Scrittrice e antropologa del patrimonio culturale
Al Jazeera – 25 marzo 2024
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Dallo scoppio della guerra a Gaza, più di 200 siti del patrimonio culturale sono stati distrutti insieme a numerosi archivi, università e musei ed esistono addirittura segnalazioni di saccheggi da parte dell’esercito israeliano di manufatti storici e persino di esposizioni di alcuni di essi alla Knesset.
La distruzione del patrimonio di Gaza ha ramificazioni sociali, politiche ed emotive di vasta portata: si tratta di un attacco concertato all’esistenza della Palestina e del suo popolo.
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Oltre a produrre un’amnesia culturale su cosa significhi essere Palestinesi, la distruzione del patrimonio simboleggia la negazione della storia palestinese e del diritto alla terra e il tentativo israeliano di obliterazione della memoria palestinese è intenzionale.
Si tratta di una strategia genocida, secondo la definizione data dall’avvocato ebreo-polacco Raphael Lemkin, che ha coniato il termine “genocidio” nel 1944.
Questo tentativo di distruggere il legame non solo fisico tra i Palestinesi e il loro patrimonio ha lo scopo di cancellare la presenza palestinese e legittimare il colonialismo israeliano.
La distruzione israeliana dei siti archeologici e il saccheggio di manufatti a Gaza sollevano anche interrogativi sulla presunta neutralità dell’archeologia nel nostro mondo accademico.
La realtà è che l’archeologia può essere profondamente politica dal momento che la possibilità di avanzare pretese nel presente sulla base di documenti materiali del passato conferisce all’archeologia un grande potere.
Letteralmente, gli archeologi forniscono le prove fisiche necessarie per la realizzazione di narrazioni storiche e hanno quindi l’obbligo morale di informare il pubblico della natura profondamente politica della scienza a cui si dedicano.
In questo contesto, il silenzio delle associazioni archeologiche di tutto il mondo su quanto che sta accadendo a Gaza è stato assordante.
In Europa studiosi irlandesi del patrimonio culturale hanno fatto pressione sull’Associazione Europea degli Archeologi (EAA) affinché parlasse apertamente e all’inizio di marzo l’EAA ha finalmente rilasciato una dichiarazione.
Ma il testo è stato deludentemente non impegnativo e generico di fronte alle atrocità.
Si è riferito al genocidio di Gaza come alla “crisi Israele/Gaza” e ha usato un linguaggio copiaato dalla Convenzione del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO del 1972.
In altre parole, ha parlato del patrimonio in termini del suo valore socioeconomico – la sua integrità o autenticità – piuttosto che riconoscere le implicazioni politiche della distruzione del patrimonio in un contesto coloniale.
L’incapacità dell’EAA di riflettere su come l’archeologia, e di conseguenza la costruzione del patrimonio culturale, si intreccia con il potere e la storia è pericolosa, in quanto travisa la disciplina (dell’Archeologia) come puramente oggettiva.
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Alcune persone sono consapevoli del ruolo dell’Archeologia nel colonialismo.
Sempre meno, tuttavia, sanno come questa ha influenzato la politica del XX Secolo, creando identità che si basano su passati riscoperti e condivisi e tradizioni inventate di sana pianta, come hanno sostenuto gli storici Eric Hobsbawm e Terence Ranger.
L’Archeologia crea legami tra la terra e la sua gente attraverso il possesso del passato.
Se questa scienza viene usata correttamente, allora ha il potere di illuminare il modo in cui le persone vivevano e si relazionavano tra loro nel passato del nostro mondo.
Usata in modo scorretto, diventa una tecnologia di oppressione, cooptata da regimi di potere che desiderano sfruttare una versione revisionata o una “visione” inventata di sana pianta del passato per espropriare e sostituire gli altri.
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