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Bergamo in Comune | 25 Aprile 2025

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IN MEMORIA DEL COMPAGNO MAURIZIO MAZZUCCHETTI

IN MEMORIA DEL COMPAGNO MAURIZIO MAZZUCCHETTI

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Maurizio, fondatore di BergamoinComune, ci ha lasciati dopo lunga malattia.

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Scrivere il panegirico, vale a dire la commemorazione rivolta a tutti, di qualcuno che di persona si è conosciuto appena, o che non si è conosciuto affatto se non di fama, è un qualcosa di relativamente facile: l’emotività non viene coinvolta e si può preparare un testo cercando di usare la sola ragione.

Ma quando chi viene a mancare lo conosci di persona e quando guardi il pacchetto di tè della migliore qualità che è da oltre un mese sul ripiano dell’ingresso di casa perché ti ripromettevi di andarlo a trovare, di portarglielo e ora scopri di essere andato oltre tempo massimo…

Limitiamoci a dire che è più difficile.

Maurizio, dopo una vita da hippie in ritardo, da quando il male incurabile si era palesato poteva bere solo tè o altre bevande leggere del genere.

Confesso di avergli portato, tanto per variare, anche del karkadè (che ai tempi delle inique sanzioni e della autarchia dissetava più del tè) e una tisana alla canapa (recuperata in una erboristeria di Milano, in libera vendita perché l’alcaloide principale era stato neutralizzato – così stava pure scritto sulla confezione) tanto perché potesse ricordarsi di quando era il più noto hippie in ritardo della Val Cavallina.

Queste poche righe non saranno quindi un panegirico, ma un insieme scombinato di ricordi.

Vi piaccia leggerli.

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Il primo ricordo è relativo ai funerali di suo padre, morto a circa 95 anni, quindi venti anni più anziano di lui.

Ex-partigiano cattolico l’ultimo saluto gli è stato dato con rito religioso e le bandiere dell’ANPI hanno seguito il feretro dentro la chiesa dove il prete si è sentito in dovere di farle esporre “al posto d’onore”, di fianco all’altare.

Errore grave: il “posto d’onore” dove si espongono le bandiere partigiane è in mezzo al popolo, non ne esistono altri.

Con Maurizio ne avevamo parlato e gli avevo raccontato dell’analoga cerimonia religiosa per mio zio, combattente della Repubblica di Montefiorino e deceduto in un incidente stradale nel ’75, i suoi compagni partigiani c’erano tutti e si erano posizionati nel mezzo, subito dopo le file dei parenti e prima degli altri presenti: la bandiera dell’ANPI la teneva uno di loro in modo che fosse bene in mezzo a tutti e sfiorasse il feretro.

Avevo aggiunto che per le leggi della Repubblica esistono solo due forme del Tricolore in cui sono ammessi emblemi: il vessillo della Marina Militare e quello della Marina Mercantile.

Non esiste una legge, o un decreto, che istituzionalizza la bandiera dell’ANPI.

Anzi, la legge prescrive che: “Le bandiere sono esposte in buono stato e correttamente dispiegate; né su di esse, né sull’asta che le reca, si applicano figure scritte o lettere di alcun tipo”.

E allora come mai esiste la bandiera dell’ANPI?

Ma è molto semplice!

Perché il suo diritto ad esistere è stato conquistato sul campo, letteralmente, come ha scritto Pietro Calamandrei:

“soltanto col silenzio dei torturati

più duro d’ogni macigno

soltanto con la roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono

per dignità e non per odio”.

Maurizio era rimasto affascinato da questo ragionamento.

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Un altro ricordo è quello del dibattito da lui organizzato a San Paolo d’Argon e a cui mi aveva chiesto di partecipare nei giorni di Fukushima.

In sala erano presenti anche esponenti della maggioranza del locale Consiglio Comunale e Maurizio era preoccupato che il dibattito degenerasse in rissa.

Gli ho preparato una serie di immagini da proiettare che rappresentavano, nell’ordine: documenti ufficiali ONU, proiezioni meteorologiche del Zentralanstalt für Meteorologie und Geodynamik (ZAMG) di Vienna, tavola del decadimento dei radionuclidi, filmati di kamikaze che si schiantano contro una portaerei americana, dichiarazioni della Conferenza Episcopale del Giappone (esiste anche questa) che invitano i Cattolici locali ad offrirsi volontari per i contenimenti radioattivi più pericolosi e letali, autorizzazioni delle autorità competenti ad usare la minoranza cattolica giapponese per le attività più da kamikaze, etc.

Conclusione: la biosfera, cioè noi, è contaminata…

Ovviamente nessuno degli aspiranti provocatori presenti quella serata ha osato dire né “Ahi!”, né “Bai!” e Maurizio se la è risa per mesi.

Ancora dopo un bel po’ mi diceva: “li hai traumatizzati, sai che ne stanno ancora parlando”?

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Terzo e ultimo ricordo è quello di quando gli ho raccontato, presentandogli la documentazione ufficiale USA, dell’ultimo massacro di visi pallidi effettuato dai Pellerossa (si possono ancora definire così, vero? E non venitemi a dire che per il “politicamente corretto” si dovrebbe usare il pessimo “Nativi”).

Peggio di Little Big Horn, dove i caduti tra i visi pallidi sono stati, cifra ufficiale, duecentosessantotto, nell’ultimo massacro di cui andiamo ora a parlare sono stati oltre cinquecento, il doppio, ed erano pure tutti SS Totenkopf di pura razza ariana…

Si tratta di una storia poco nota, rivelata negli anni ’90 da U.S.Army Veterans che ne sono stati testimoni o, addirittura, protagonisti: nell’aprile del 1945 una divisione americana, arruolata nelle Grandi Pianure e composta da Pellerossa e da Tedesco-Americani, libera il lager di Dachau vicino a Monaco di Baviera e questi soldati rimangono allibiti e allucinati da quanto vedono.

Seduta stante viene deciso di applicare la legge tribale, gli ufficiali vengono allontanati, il comando viene preso da un sottotenente della Nazione Cherokee e oltre cinquecento guardie SS Totenkopf vengono chiuse in un cortile.

I militari tedesco-americani si fanno da parte, guardano e non muovono un dito.

Arrivano due mitragliere Browning ed i Pellerossa sterminano senza pietà, come prescritto dalla loro legge tribale, tutte le SS Totenkopf di pura razza ariana.

Nel frattempo le armi delle SS sono state consegnate ai prigionieri liberati, tra cui militari inglesi prigionieri di guerra e avviene pure lo sterminio dei kapò, però quest’ultimo è una faccenda tra visi pallidi (anche se non tutti di pura razza ariana) e non coinvolge i Pellerossa.

A cose fatte i militari tedesco-americani si fanno avanti, emettono un ordine che proibisce ulteriori uccisioni e i Pellerossa, tanto la loro legge tribale era già stata applicata (li avevano già ammazzati tutti), da bravi soldatini ubbidiscono.

Un tenente tedesco-americano stende una dettagliatissima relazione sugli eventi che viene regolarmente archiviata, per riemergere cinquanta anni dopo, e il sottotenente cherokee passa di grado, viene decorato e congedato con onore.

Prima però va ad occupare il Nido dell’Aquila e si fa pure fotografare mentre è seduto sul WC personale di Adolf.

Ovviamente Maurizio, quando gli ho raccontato (documentazione alla mano) questa storia, ne è rimasto estremamente interessato e poi mi ha raccontato che ne aveva ricavato alcune lezioni per i suoi alunni i quali, a loro volta, se le erano ascoltate con gli occhioni spalancati.

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Addio Maurizio.

Come panegirico quanto ho ora scritto non è gran che, ma ho preferito ricordarti con questi eventi vissuti o raccontati insieme.

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Bergamo, 25.III.2025.

Marco Brusa

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